Squid Game, si parla sempre di Squid Game.
Una delle serie televisive Netflix che ha ottenuto più successo: sia dal punto di vista degli streaming registrati sulla piattaforma, sia (e forse, soprattutto) per tutto il marketing, lo storytelling e l’impatto mediatico che questo nuovo K-drama sta avendo sulla società, sui brand, sulla comunicazione.
Basta guardare una qualsiasi stories di Instagram per capire come il riferimento ai meme e alle immagini di Squid Game rappresenti per tanti un trampolino per surfare sull’onda della popolarità di questa serie netflixiana.
Niente di nuovo: ricalcare e vivere di instant marketing è un trend su cui poggia la comunicazione di numerose marche. Quindi è normale fare un continuo riferimento alla moda del momento, che sia una trasmissione televisiva o (come accade sempre più spesso) una serie (tele)web-visiva: il meme spadroneggia perchè è immediato, arriva subito, é colto dalla maggior parte del pubblico e non richiede un particolare sforzo cognitivo.
Ma con Squid Game si arriva ad un livello maggiore, o meglio, si supera un confine. Si entra nel campo della spettacolarizzazione e normalizzazione della violenza.
È cinema, è arte, è finzione.
Tutto vero.
Nel passato sono andate in onda tanti film e tante serie televisive violente, splatter, scioccanti, paurose (ognuno di voi potrà completare questo elenco con l’aggettivo che reputa più idoneo alla sua serie preferita, tra quelle che percepisce come più strong).
Ma da quando siamo immersi in questa connessione continua, è sempre più complesso percepire il confine tra on e off (line).
Un esempio: andare al cinema e guardare un film horror, può e (deve) spaventare. È il posto adatto: siamo al buio, proiettati con la mente al grande schermo, l’audio ci avvolge. Andare al cinema è un’esperienza totalizzante. Soprattutto, uscire dalla sala cinematografica alla fine del film, ci riporta alla luce, ad una nuova realtà: torniamo al nostro mondo.
Nel web invece tutti i canoni sono ribaltati. Non esiste il concetto di tempo e di spazio. Siamo all’interno di un unicum in cui risulta difficile riconoscere quel perimetro rappresentato dalla sala cinematografica. Nel web possiamo “essere” (o forse apparire) a tutte le ore: di notte, di giorno, in qualsiasi luogo e non-luogo.
Un pò tutto il web è un’esperienza magica, si crea quindi quel rapimento emotivo che ci porta a credere di essere il centro del mondo; di poter e dover dire la nostra; di poter e dover spulciare le vite altrui. Di vedere, osservare, sognare e far sognare le vite degli altri. Questa è la dinamica dei social: pensiamo di essere padroni del mondo, e (quasi) ci offendiamo se quel post ottiene 1 like (in cui spesso non facciamo assolutamente niente di rilevante). Siamo talmente tanto assuefatti da questa sensazione di invincibilità mediatica, che non riusciamo ad accettare l’essere messi in secondo piano. Dai social pretendiamo che ci mettano in primo piano.
Nel web, e quindi nei social, vogliamo mimare tratti della vita altrui(da cui appunto, azzarderei anche il verbo memare: ripetere e clonare un elemento specifico). Non è un caso che gli influencer rappresentino sempre di più dei modelli di riferimento che dettano regole nel modo di vestire, parlare, agire.
Pensiamo quindi a come, questa necessità di ripetere un’azione, di mimarla appunto, si sposti nei device in mano agli adolescenti, o ad un pubblico ancora più giovane. Come la percepiscono e la interpretano? Un adulto ha un set di strumenti culturali con cui può evidenziare il suo orizzonte e capire chiaramente che quella è violenza, ma è anche fiction e soprattutto, metafora. Un adulto possiede la capacità di riscrivere quella storia, tradurla in un pensiero, un insegnamento. Trovare così un punto di unione in cui distinguere nettamente la linea tra on e offline.
Il resto del pubblico teen al contrario, vive il mondo online, con tutte le sue sfide a suon di hashtag, come uno spazio perennemente affacciato all’offline in cui cercare quel trampolino per catapultarsi nella realtà (se un tempo il sogno di molti bambini era diventare calciatori perchè vedevano allo stadio o in Tv i loro campioni preferiti, adesso sognano di finire in tendenza su Instagram grazie a qualche video virale).
E Squid Game come si inserisce in questo contesto?
Sta generando una riproduzione sempre più esplicita degli stessi stili narrativi: a partire dallo slang usato, ma soprattutto dalla replica “soft” di alcune “sfide” come per esempio il gioco delle carte, dove se perdi ti becchi uno schiaffo.
Tamponare questa emoraggia di contenuti violenti o presunti tali, è sicuramente un compito arduo per tutti i genitori che vogliono tutelare i propri figli. Ma pensare che sia il solito telefilm, o la solita moda, non aiuta sicuramente a rendere più innocuo un prodotto come Squid Game.
Rispetto agli anni ’90, dove le serie e i film da bollino rosso venivano mandati in onda in seconda serata, ad oggi risulta estremamente più complesso mettere un recinto a questa parte dell’industria culturale visiva. Un ragazzino può connettersi da uno smartphone mentre è a scuola, mentre è a letto la sera, mentre viaggia in autobus. Non ci sono più reali confini di privacy: tutto è possibile, sempre ad ogni ora del giorno, e in ogni contesto.
Non è neanche un problema solo di Squid Game: l’estrema anarchia di fruizione di contenuti, difficilmente si sposa con l’immaturità di un pubblico adulto, figuriamoci con uno di giovani e giovanissimi.
Credo che nelle scuole sia giunto il momento di educare anche a queste nuove discipline: il web 4.0 con tutte le sue estensioni, libertà, modi di interagire.
Web 4.0 che ha tantissimi benefici, e molti angoli spigolosi da conoscere ed illuminare per non far sbattere le future generazioni, e noi tutti. Per permettere così a piccoli, grandi e in generale a target sempre più trasversali di riconoscere e assorbire in modo più cosciente l’overloading di comunicazione di questi ultimi 15 anni di social media, serie e piattaforme di comunicazione.
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Massimo Demelas
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